Tiger Woods è il più grande golfista di tutti i tempi?

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Il golfista californiano ha vinto l’Augusta Masters a 14 anni dall’ultima volta, ma non è ancora il più titolato nella storia del golf.

Si può essere il più grande golfista di sempre senza aver vinto più titoli di tutti gli altri? È il grande interrogativo che accompagna gli ultimi anni della carriera di Tiger Woods, anche e forse soprattutto alla luce della straordinaria vittoria di domenica, con cui il golfista californiano ha messo le mani sul primo Major della stagione, l’Augusta Masters.

Una vittoria storica per tante ragioni – perché era addirittura la 22esima volta che partecipava dal lontano debutto nel 1995; perché è tornato a vincere un Major a 43 anni, dopo addirittura 11 anni dall’ultimo; perché l’ultimo Augusta Masters vinto risaliva addirittura al 2005 (il più lungo intervallo tra una vittoria e l’altra nella storia del golf) – ma che comunque non gli ha permesso di raggiungere il primato di Jack Nicklaus, che di Major ne vanta 18. Cioè tre in più.

Nel tennis, un altro sport in cui è fin troppo facile misurare le carriere attraverso i trofei, Roger Federer ha risolto la questione creando una perfetta corrispondenza tra talento e palmarès: lui, che dal punto di vista tecnico ed estetico è universalmente riconosciuto come il miglior tennista della storia, detiene anche il primato degli Slam (20), con l’aggiunta del record assoluto di ATP Finals (6).

Tiger, invece, ancora no. Sotto il profilo numerico, deve inchinarsi a mostri sacri del passato che hanno fatto meglio di lui. Oltre al già citato Nicklaus, anche l’indimenticato Sam Snead, che svetta con 82 tornei vinti sul PGA Tour (il circuito professionistico americano), contro gli 81 del fenomeno californiano. E che dire di Bobby Jones? Il fondatore dell’Augusta Masters resta ad oggi l’unico ad aver realizzato il Grande Slam, conquistando nel 1930 tutti e 4 i Major dell’epoca (Open Championship, Amateur Championship, US Open e US Amateur). Woods, invece, si è fermato al cosiddetto “Tiger Slam”, portando a casa 4 Major consecutivi nell’arco di due stagioni (tra il 2000 e il 2001).

Eppure Woods, rispetto a tutti gli altri, sembra avere qualcosa in più, o almeno qualcosa di diverso, in grado di proiettarlo al di là di ogni classifica. Qualcosa che non deriva dalle statistiche, o dal computo dei trofei, qualcosa di indefinibile e innato che accompagna solo i più grandi. Un qualcosa che ha a che fare con quell’aura mistica che sembra accompagnare i più grandi sportivi: un mix di carisma, personalità e voglia di primeggiare che amplifica le doti tecniche. Del resto, se è vero che si può vivere ignorando completamente il gioco del golf, è impossibile ignorare chi sia Tiger Woods: e già solo questo dice tanto della sua figura.

Tiger è un’icona vivente, l’incarnazione stessa dello sport che pratica, allo stesso modo in cui Muhammad Alì rappresentava la boxe o Michael Jordan il basket. E nessun golfista, prima di lui, è riuscito a stabilire questa equivalenza in maniera così potente.

Predestinato

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Woods ha iniziato a sviluppare qualcosa di magico sin da bambino, quando tutti lo chiamavano ancora Eldrick Tont, il suo vero nome, quello registrato all’anagrafe. È stato papà Earl, ex soldato americano che aveva combattuto nella guerra del Vietnam come membro dei Berretti Verdi (le Forze Speciali degli Stati Uniti), a coniare il nome Tiger, in onore di Nguyen “Tiger” Phong, un militare vietnamita che gli aveva prestato soccorso durante la guerra. Fu soprattutto lui ad intuirne subito la straordinaria abilità sui green.

Tiger Woods centra la prima hole in one (cioè la buca in un colpo solo) della sua vita a 6 anni. Nel 1990, a 14 anni, si aggiudica i Campionati nazionali juniores, mentre nel 1997, a 21, diventa il più giovane vincitore di sempre dell’Augusta Masters (record poi battuto da Jordan Spieth nel 2017).

Inizialmente l’ascesa della sua carriera è quasi inarrestabile: Woods non gioca i tornei, li domina. Non solleva trofei, li colleziona in serie, sbaragliando la concorrenza. «Ho capito di aver perso contro di lui sul tee di partenza, alla prima buca», disse una volta Chris Di Marco, sconfitto al Masters del 2005: «Quando gli stringi la mano, prima di iniziare a giocare, lui sa che è migliore di te. E anche tu lo sai. Ma la cosa peggiore di tutte è che lui sa che tu sai».

Woods si è impadronito del gioco del golf per 12 anni (dal primo trionfo al Masters del 1997 al 27 novembre 2009, data del famoso incidente d’auto e dell’inizio degli scandali a sfondo sessuale), come mai nessuno era riuscito a fare prima.

Al suo prime, Tiger Woods ha rappresentato per il golf quell’idea di dominio asfissiante, che il successo cioè non debba passare solo superando gli avversari ma annullandoli definitivamente, che sembra centrale nello sport contemporaneo. Prendere il comando della classifica alla prima buca per non abbandonarlo più è sempre stata la sua tattica preferita, se possiamo chiamare “tattica” uno sfoggio così sfacciato del proprio talento. Per 54 volte su 55 ha vinto il torneo quando si è trovato all’ultimo round con almeno un colpo di vantaggio. Ma, in più occasioni, Tiger ha trionfato anche a un passo dalla sconfitta, appellandosi al suo mostruoso autocontrollo psicologico. Nel 2008 a Torrey Pines, ad esempio, quando ha conquistato il suo ultimo Major.

Quel titolo US Open arriva al termine di una sfida dai contorni leggendari con il golfista italo-americano Rocco Mediate, giunto all’appuntamento non certo da fenomeno annunciato (solo sesto in precedenza al PGA Championship del 2002) e neppure tanto giovane, dall’alto dei suoi 46 anni (14 in più dell’allora 32enne Woods). Nonostante ciò, durante i quattro giorni di gara Mediate esprime un golf superlativo, costringendo Woods a una sfida straordinaria, resa ancora più complicata dal vicino intervento in artroscopia al ginocchio sinistro.

Dopo 72 buche di colpi spettacolari, sorpassi e controsorpassi in cima al leaderboard (a cui partecipa anche l’inglese Lee Westwood), Woods e Mediate si ritrovano appaiati in vetta e accedono alle 18 buche supplementari di playoff, nella giornata di lunedì. Mediate piazza tre birdie consecutivi che valgono recupero (buca 13), aggancio (buca 14) e sorpasso (buca 15).

La pressione su Woods è altissima ma il californiano, che gareggia con una frattura da stress alla gamba sinistra, e continua a procedere praticamente su una gamba sola, infila un birdie all’ultimo tentativo e prolunga l’interminabile sfida al cosiddetto sudden-death, una sorta di golden gol calcistico: il primo che chiude la buca con il minor numero di colpi, vince. Si parte dalla 7 e Woods non si fa pregare: a dispetto del ginocchio a pezzi e della fatica accumulata, piazza il colpo definitivo.

L’apice

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 Lo US Open del 2008 è l’apoteosi di un talento che Woods ha esibito in maniera costante in tutta la sua carriera, che si è espresso soprattutto in una capacità di concentrazione di molto al di sopra della media, al di là delle doti tecniche. Al playoff Woods ha perso una sola volta (nel 1998 al Nissan Open, da Billy Mayfair), trionfando negli altri 16 disputati. Ma attribuire la sua grandezza a una pura superiorità mentale è riduttivo. Dal punto di vista meccanico, Tiger ha sempre realizzato colpi impossibili per molti altri campioni di golf e, al massimo della condizione psico-fisica, ha raggiunto l’apice in ogni settore del gioco: drive, ferri lunghi, approcci e putt. Sui green, poi, è riuscito a ottenere percentuali disumane, con il picco di appena 23 putt nell’ultimo giro del PGA Championship 2018. Mentre gli altri tremano nei momenti di massima tensione agonistica, insomma, Woods sembra migliorare all’aumentare della pressione: per 45 volte ha disputato le ultime 18 buche da leader, con la pressione degli inseguitori alle spalle, e in 43 occasioni ha portato a casa il torneo (cioè, per dare una misura statistica, il 95,6% dei casi; la media è di 39,7%).

Tiger Woods, come i migliori sportivi dei nostri tempi, ha vissuto la necessità di perfezionarsi come un’esigenza quasi esistenziale, nonostante avesse vissuto da dominatore incontrastato la prima decade degli anni Duemila. Un’assoluta e maniacale dedizione al golf che gli ha permesso di restare al vertice del world ranking per un totale di 683 settimane. Basti pensare che il secondo di questa speciale classifica, l’australiano Greg Norman (vincitore di due British Open a cavallo tra gli anni ’80 e ’90), segue a quota 331 settimane, cioè circa 7 anni in meno.

Un arco di tempo di sconfinato, durante il quale Woods ha costruito il proprio mito, ritagliandosi anche un ruolo sociale specifico, come icona sportiva dell’America multirazziale e vincente – e infatti la Nike, che poche settimane fa aveva annunciato che non avrebbe più investito nel golf, dopo la vittoria dell’Augusta Masters lo ha rilanciato all’interno della sua campagna pubblicitaria che aveva visto come protagonisti già sportivi come Serena Williams e Colin Kaepernick.

Alla fine dello spot si vede un Tiger Woods bambino dire: «Io batterò Jack Nicklaus», e fa strano pensare che oggi sia considerato un sogno da svitati, dato che fino a non troppo tempo fa sembrava quasi impossibile che non accadesse.

Per più di 10 anni, infatti, la vita di Tiger è girata attorno a due sensazioni che solo i fuoriclasse hanno il privilegio di assaporare: l’invincibilità e l’inevitabilità. Ogni sua apparizione su un campo da golf finiva in maniera quasi scontata: palla in buca, pugno di esultanza e trofeo tra le braccia.

Nel 2009, in occasione del torneo “The Invitational”, Arnold Palmer, il più grande golfista degli anni Sessanta, gli era andato incontro per congratularsi senza nemmeno aspettare l’esito del putt decisivo di quasi 5 metri che Woods doveva imbucare per vincere. «Sapevo che ce l’avrebbe fatta semplicemente perché con Tiger non può accadere nulla di diverso», aveva detto Palmer. All’apice della carriera, prima e più di chiunque altro, Tiger Woods sembrava rientrare alla perfezione in quell’idea di sportivo superuomo che ormai, con figure come LeBron James, Messi e Federer, siamo abituati a conoscere. Quel tipo di sportivo che semplicemente rifiuta l’idea di non poter vincere sempre.

La caduta

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 E invece, proprio quando il dominio di Tiger sembra inattaccabile, la sua carriera prende una curva inaspettata, imboccando il tunnel degli scandali e dei guai fisici. Il 28 novembre 2009, in seguito a una lite con la moglie Elin Nordegren, Woods va a sbattere con la sua Cadillac contro un idrante per poi schiantarsi contro un albero a Isleworth, nei sobborghi di Orlando. Trascorre alcune settimane in una clinica per curare la dipendenza sessuale, ma il calvario è appena iniziato. Nell’aprile del 2011 si lesiona gravemente il tendine d’Achille, mentre a marzo dell’anno successivo inizia ad accusare i primi problemi alla schiena che lo porteranno a subire quattro interventi chirurgici, tra cui una fusione spinale che risolverà definitivamente i suoi problemi.

Ma fino a due anni fa Woods non riusciva nemmeno a piegarsi per allacciarsi le scarpe. «Potevo a mala pena camminare. Non riuscivo a sedermi, a sdraiarmi. Non potevo fare praticamente niente», ha detto Woods ieri dopo la vittoria all’Augusta Masters.

Nel suo vocabolario medico inizia a comparire anche un termine preoccupante: “The Yips”, ovvero una sindrome che colpisce tra il 33% e il 48% dei golfisti professionisti e che sarebbe causata da scompensi muscolari e cerebrali dovuti a sforzi eccessivi prolungati nel tempo. Gli yip sono contrazioni involontarie, barcollamenti, spasmi che ovviamente portano ad un veloce declino dei risultati. Chi viene colpito dagli yip talvolta recupera la propria abilità, molti atleti però sono costretti ad abbandonare per sempre lo sport ad alto livello. Una condizione si verifica più spesso negli sport dove gli atleti sono tenuti a svolgere una singola azione precisa e tempestiva come il golf, il bowling, il cricket e il baseball.

È per questo motivo che ad un certo punto sembra addirittura plausibile che Tiger Woods si ritiri, mentre precipita al numero 668 del ranking. Nella primavera del 2015, durante una sessione di allenamento nel giardino di casa, non riesce a superare i 50 metri di volo di palla. Il suo swing, indicato per anni come risultato di una miracolosa concentrazione di tecnica e potenza, viene colpito da un’allarmante involuzione. Quando sbaglia, Tiger non commette semplici sbavature ma spara la palla in ogni zona del campo, come raramente capita di veder fare a un professionista. E con il drive, spesso, non conclude nemmeno il movimento ma getta in aria il bastone prima di chiudere il colpo.

Il gioco dal tee, che sollecita fortemente i muscoli della schiena, diventa il suo evidentissimo tallone d’Achille con il 48% di drive in pista (contro il 70% della media PGA). E, di conseguenza, si fanno preoccupanti anche i numeri della voce green in regulation (precisione di arrivo sul green), con un buon 20% in meno rispetto ai colleghi.

Di ineluttabile, ora, sembra esserci solo un triste epilogo di carriera. Che, secondo la leggenda, viene interrotto da un evento ben preciso.

Notah Begay III, un amico di Woods con problemi di alcolismo, lo mette in contatto con Micheal Phelps, il re del nuoto che era riuscito a mettersi alle spalle una grave forma di depressione e due arresti per guida in stato di ebbrezza. I due si parlano al telefono, e Phelps, che è anche grande appassionato di golf, riesce a trovare la chiave per rivitalizzare Woods, distrutto dal dolore fisico e soprattutto dal timore di non riuscire più a tornare ai vertici.

La risalita è lenta e piena di ostacoli, ma inarrestabile. Per altri due anni (2016 e 2017), Tiger non prende parte ai Major e solo nel dicembre 2017 torna ad essere competitivo all’Hero World Challenge, dove chiude al 9° posto (con uno score più che rispettabile 69-68-75-68).

La cosa più interessante, al di là della risalita, è che Woods inizia a risorgere sfoggiando una versione inedita di sé. Da dominatore glaciale e indistruttibile dei primi anni Duemila, Woods si trasforma in uno sportivo più umano sia in campo, dove adesso sembra persino più capace di soffrire e rimontare, che fuori, dove spesso si ferma a firmare autografi, o a sorridere ai fan mentre scambia il cinque. O che addirittura si permette di scherzare con gli avversari sui green.

Nel 2018 getta le basi per regalare alla propria storia il lieto fine: arriva sesto all’Open Championship di Carnoustie (dove dà vita a un esaltante testa a testa finale con il vincitore del torneo Francesco Molinari), si piazza secondo al PGA Championship (ultimo Major della stagione) e infine vince il Tour Championship (ultimo dei 4 playoff di FedEx Cup, dove si qualificano solo i migliori 30 giocatori al mondo), interrompendo un digiuno lungo 5 anni. Ma ovviamente è la vittoria dell’Augusta Masters che ha finalmente riportato Woods nel posto dove tutti pensavano dovesse stare, anche se nessuno si aspettava più che potesse accadere.

La chiusura del cerchio

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 La giacca verde conquistata domenica non è importante solo di per sé, ma anche perché ha creato una narrazione perfettamente circolare della carriera di Woods che si è rispecchiata nell’andamento della gara stessa.

Tiger Woods ha infatti completato una rimonta, essendo arrivato all’Augusta National Golf Club, dove si gioca l’ultima giornata del torneo, con due colpi di svantaggio su Francesco Molinari. E sulla sua vittoria ha avuto un peso decisivo la sua esperienza: i 43 anni di Woods, alla fine, sono stati un vantaggio più che un peso. Nessuno come Tiger ha dimostrato di conoscere alla perfezione il difficile campo di Augusta, infatti, riuscendo a evitare tutte le sue trappole. A partire dal terribile par 3 della 12 (nel mezzo dell’Amen Corner) che ha ieri ha fatto vittime illustri (Poulter, Kopka, Finau e lo stesso Molinari, tutti finiti in acqua). L’altro turning point della gara è stato un altro par 3, quello della 16. Fino a quel punto c’erano ben cinque giocatori appaiati in vetta e sembrava plausibile si potesse arrivare a un super spareggio che all’Augusta non si è mai visto (mai infatti è stato disputato un playoff con più di 3 giocatori).

Proprio in quel momento, però, Woods ha spaccato in due la gara giocando un ferro stratosferico con palla a pochi centimetri dalla buca, sfiorando un leggendaria hole in one. È stato quello il colpo che gli ha permesso di prendere il largo, forse anche psicologicamente, perché gli altri dopo quel momento non sono più riusciti a riprenderlo. Alla 18, quasi a rimarcare il ritorno della sua superiorità, si è concesso addirittura il bogey, tanto aveva comunque due colpi di margine per vincere.

È stato lo stesso Woods a rimarcare la circolarità della sua vittoria, della sua carriera e addirittura della sua vita. «Sento di aver chiuso un cerchio», ha detto Woods dopo la vittoria «Mio padre era qui nel 1997 (la prima volta che Woods ha vinto il Masters, ndr). Adesso sono io padre, e sono qui con i miei due figli».

Woods non è l’unico. C’è chi ha visto infatti una grande somiglianza tra la sua vittoria dell’Augusta Masters e quella dello stesso Nicklaus nel 1986. Allora Nicklaus aveva 46 anni (appena tre in più di Woods oggi), anche lui partiva da uno svantaggio, in quel caso di addirittura quattro colpi, e non vinceva un Major da sei anni, e il Masters da addirittura 11. E proprio Nicklaus, che ha vinto un Masters e tre Major in più rispetto a Woods, è l’unico nella storia del golf che, in quanto a trofei, può fare ombra alla sua legacy. Ma dopo la vittoria di domenica ha ancora importanza?

Tiger Woods ha dimostrato con uno dei comeback più incredibili della storia dello sport che il golf non può fare a meno di lui, soprattutto mediaticamente, e questo al di là del numero di trofei conquistati e nonostante l’ascesa di una nuova generazioni di talenti (Jordan Spieth, Bryson DeChambeau, Brooks Koeapka). Lo dimostra la folla oceanica di Atlanta che lo ha accompagnato in massa a percorrere le ultime 18 buche dell’ultimo Tour Championship, e soprattutto la celebrazione globale dopo la vittoria dell’Augusta Masters. Una dimostrazione di affetto, misto a idolatria, riservata solo alle grandi rockstar o ai divi di Hollywood, che nel golf non è mai stata riservata a nessuno e che forse mai farà in futuro.

Forse Tiger non riuscirà a passare alla storia come il più titolato dei green. Eppure, al di là dei numeri, il suo primato nell’Olimpo del golf non è in discussione: nessuno come Woods ha saputo generare interesse e passione per questa disciplina, esportarla a livello globale, rendendo popolare uno sport di nicchia. Il numero di trofei che riuscirà a raccogliere da qui al termine della sua carriera sembra quasi secondario e non sembra ormai poter incidere sulla pesante eredità che lascia al mondo del golf.

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D’altra parte, lui stesso adesso sembra meno ossessionato dai risultati e curarsi poco del primato di Nicklaus. Subito dopo aver indossato l’iconica giacca verde dell’Augusta Masters gli hanno chiesto se pensasse di poter riuscire a battere il suo record di 18 Major vinti e lui ha risposto: «Forse sì, forse no. Adesso è un po’ presto. Mi sto godendo questa vittoria e basta».

Istituto Dante Alighieri