Inizia l'era Biden: cosa dobbiamo aspettarci?

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Oggi, 14 dicembre, il Collegio elettorale americano vota formalmente il prossimo presidente degli Stati Uniti: nonostante l'ammuina di Trump, sarà Joe Biden. Capire che elezioni sono state ci aiuta a immaginare cosa può succedere da qui in poi

E così, nel bel mezzo della più grave pandemia dell’ultimo secolo, è accaduto ciò che a gennaio sembrava a dir poco improbabile, e che non accadeva dai tempi di Jimmy Carter (cioè da 40 anni): la Casa Bianca ha cambiato colore politico dopo soli quattro anni. Il voto di del Collegio elettorale verrà ratificato dal Congresso solo il 6 gennaio, ma da oggi Joe Biden è ufficialmente il vincitore di questa elezione. Finiti gli scrutini, terminati i riconteggi, concluse le dozzine di cause nei tribunali di ogni rango, possiamo finalmente osservare in controluce questa elezione, sulla base di numeri definitivi e di dati certi.

Nelle urne Biden ha ricevuto ben 81.284.716 voti popolari, divenendo il presidente più votato della storia; anche Trump ne ha ricevuti moltissimi, 74.223.367, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden (nonché lo sconfitto più votato della storia). Il voto popolare, però, rileva esclusivamente in funzione del passaggio successivo, cioè quello nel Collegio elettorale, e lì l’elezione di Biden è avvenuta esattamente con gli stessi voti rispetto a quella di Trump quattro anni fa (306 contro 232). 

È vero che Trump nel 2016 ottenne quella vittoria pur avendo perso di quasi tre milioni nel voto popolare, mentre Biden ora ha ottenuto gli stessi 306 voti elettorali avendo battuto Trump di oltre sette milioni di voti. Se ci fermassimo a questo, saremmo potremmo dire che a parità di voti nel Collegio elettorale la vittoria di Biden è stata molto più ampia. Ma il sistema del Collegio fa sì che i voti siano rilevanti soprattutto in base a dove (in quale dei 50 stati) li si riceve: ha poca importanza il voto negli stati che si considerano già vinti (o persi) a priori, ed è invece cruciale il voto negli stati più in bilico, che fanno da ago della bilancia.

Ecco perché tre settimane fa il Washington Post titolavaGli elettori che hanno consegnato la vittoria a Biden negli stati chiave non basterebbero per riempire il Rose Bowl, e questo influenzerà il suo modo di governare” (il Rose Bowl è lo stadio di Pasadena, che ha poco più di 90mila posti). La ragione di questa lettura è la medesima che quattro anni fa portava a evidenziare che Trump andava alla Casa Bianca “grazie a 80mila voti in tre stati”.

Le tre vittorie con margine più esiguo (meno di un punto percentuale di vantaggio) Trump le aveva conseguite in Michigan per 10.704 voti (con un margine dello 0,22%), in Pennsylvania per 44.284 voti (+0,72%), e in Wisconsin per 22.748 (+0,76%). Analogamente, Biden non avrebbe vinto senza i voti elettorali di Arizona, Georgia e Wisconsin, nei quali l’ha spuntata, rispettivamente, per 10.457, 11.779 e 20.682 voti popolari (con margine, rispettivamente, dello 0,31%, dello 0,24% del 0,63%). Politicamente la vittoria di un candidato democratico è eclatante in stati come la Georgia e l’Arizona, nei quali la vittoria dei repubblicani era la imperturbabile normalità ormai da decenni; ma sul piano quantitativo si tratta di vittorie fragilissime: nel complesso in quei tre stati 42.918 voti in tutto, poco più della metà di quelli grazie ai quali Trump vinse nel 2016. Sedendovi solo quegli elettori, lo stadio di Pasadena sarebbe mezzo vuoto: li si potrebbe accomodare anche ora, in tempo di distanziamento sociale.

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(via The Washington Post)

Vi sono poi altri risultati che potrebbero influenzare ancor di più il modo in cui Biden governerà. Quello più importante non è ancora deciso: si tratta della maggioranza al Senato, che i democratici potrebbero non aver espugnato. Dipende tutto da come andrà il ballottaggio che si concluderà il 5 gennaio per entrambi i seggi senatoriali in Georgia: se i candidati del suo partito non la spuntassero Biden si troverebbe sotto scacco da parte di Mitch McConnell, attuale leader repubblicano al Senato, abile e spregiudicato stratega. Alla Camera invece il partito di Biden la maggioranza l’aveva e l’ha mantenuta, ma perdendo molto terreno: alle ultime elezioni (quelle del 2018) i democratici avevano ottenuto 235 seggi su 435, ora invece ne avranno non più di 224: cioè una maggioranza di appena 6, perdendone una dozzina rispetto a 2 anni fa (qui i sondaggi hanno fallito miseramente: pronosticavano che ne avrebbero guadagnati una buona quindicina).

E fra appena due anni si rivota: per le elezioni di metà mandato, che tendono a premiare quasi sempre il partito di opposizione ma ultimamente lo hanno premiato di più quando si trattava del Partito repubblicano. Quando Obama si insediò nel 2009 i democratici avevano 59 senatori e 256 deputati, e i repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile la cover story di Time sul tema); ma appena due anni dopo, alle Midterm del 2010, i repubblicani realizzarono la loro più grande vittoria elettorale parlamentare dell’ultimo secolo, strappando ai democratici la bellezza di 66 seggi, perdendone tre quindi con un vantaggio netto di 63. I democratici in quell’occasione tennero al Senato; ma lo persero alle successive Midterm, quelle del 2014, nelle quali persero anche ulteriore terreno alla Camera (i repubblicani vinsero 247 seggi, un guadagno netto di 13). Con questi precedenti, può Biden aspettarsi qualcosa di buono dalle Midterm del 2022?

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(via Forbes)

A questo si aggiunge un problema senza precedenti: il fattore T

Trump non ne vuole sapere di seguire la consuetudine che vede uscire di scena lo sconfitto alle presidenziali. Sta facendo di tutto per non abbandonare la ribalta. Dopo il 20 gennaio, quando non potrà più farlo dalla Casa Bianca, potrà inventarsi qualcos’altro; magari rimettendo in cantiere il progetto, al quale si dice lavori da anni, di una media company tutta sua che faccia concorrenza da destra a Fox News. In ogni caso, sembra puntare a una campagna elettorale permanente per costruirsi un inedito ruolo di leader dell’opposizione che mai nessuno sconfitto aveva rivestito nella storia degli Stati Uniti. Difficile dire fino a che punto ci riuscirà; ma ancora più difficile è prevedere quanto questo potrà nuocere a Biden (posto che è stando all’opposizione, senza il peso di responsabilità di governo, che un personaggio come Trump riscuote più consensi), e quanto invece gli potrà giovare. Dopotutto ci siamo ripetuti mille volte che questa elezione è stata un referendum su Trump, e che il voto per Biden è stato soprattutto un voto contro Trump; il fatto che Biden sia andato meglio rispetto a come il suo partito è andato nell’elezione al Congresso (e simmetricamente Trump sia andato peggio del Partito repubblicano) non sembra certo smentire questa lettura. Chissà, forse avere ancora lo spauracchio Trump in scena nei prossimi mesi e nei prossimi anni potrebbe paradossalmente servirgli da sponda.

Infine c’è un problema che è sotto gli occhi di tutti, ma del quale si parla poco e sottovoce, probabilmente perché non c’è un modo elegante per dirlo: Biden ha 78 anni suonati, sono tanti e li dimostra tutti.  Quando nel 2008 John McCain veniva accusato dall’entourage Barack Obama di essere troppo anziano per diventare presidente, ne aveva 72.  Nessuno è disposto a credere che nel 2024 si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico. La sua rischia perciò di essere una presidenza zoppa sin dal primo giorno; a meno che non se la giochi facendosi forte del fatto che, proprio perché è a un passo dalla pensione, non ha più niente da perdere.  

Trump invece ne compirà 78 proprio nel 2024, ed essendo stato alla Casa Bianca per un solo quadriennio avrebbe il diritto di ricandidarsi per un secondo, come già indica di voler fare. Sempre che prima torni a candidarsi alle primarie del Partito repubblicano, e riesca nuovamente a vincerle. Per ora sta raccogliendo un sacco di soldi, che è una cosa che nella vita ha imparato a fare benino. Poi si vedrà.

Istituto Dante Alighieri