Tutte le volte in cui Einstein ha avuto ragione

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Eclissi di Sole. Lenti gravitazionali. Onde gravitazionali. Così, nell’arco di cento anni, le teorie di Albert Einstein hanno trovato sempre più riscontri sperimentali

La teoria della relatività generale formulata da Albert Einstein è corretta. Ce lo siamo sentito dire diverse volte, nel corso di questo ultimo secolo: in più occasioni, infatti, la comunità scientifica ha avuto modo di verificare, tramite osservazioni sperimentali, la correttezza delle intuizioni del fisico tedesco che hanno stravolto per sempre i concetti di spazio, tempo e gravità. L’ultima prova, in ordine temporale, è appena arrivata grazie a un lavoro pubblicato su Science da un’équipe di scienziati del Department of Physical Sciences alla Embry-Riddle Aeronautical University di Daytona Beach, in Florida (e di altri istituti di ricerca). I ricercatori, in particolare, hanno analizzato un aspetto del cosiddetto fenomeno delle micro-lenti gravitazionali, ossia la deviazione della luce proveniente da una sorgente lontana, concludendo, per l’appunto, che “Einstein sarebbe orgoglioso di noi: una delle sue previsioni ha appena passato un rigorosissimo test sperimentale”.

Ma ripercorriamo questo secolo breve con ordine, partendo dall’inizio. Tutto è cominciato il 25 novembre 2015, quando il trentasettenne Einstein annunciò all’Accademia prussiana delle scienze l’equazione di campo alla base della teoria della relatività generale. Si tratta, per essere più precisi, di un sistema di dieci equazioni che descrivono come la forza gravitazionale sia il risultato della curvatura dello spazio-tempo (il tessuto a quattro dimensioni su cui è cucito l’Universo) dovuta alla presenza di massa ed energia. Per raccontarla in parole più semplici, i fisici si servono di solito di una metafora che, se pur non correttissima dal punto di vista scientifico, aiuta la comprensione del fenomeno: lo spazio-tempo si può immaginare come una sorta di foglio di gomma, una superficie morbida che viene curvata dalle masse che vi sono appoggiate sopra. In tale analogia, per esempio, la forza di gravità esercitata dal Sole nei confronti della Terra altro non è che il risultato della curvatura del foglio di gomma quadridimensionale provocata dalla massa del Sole stesso.

Naturalmente, Einstein non si limitò a esporre la sua teoria. Ne propose anche nel 1916, tre verifiche sperimentali, poi passate alla storia con il nome di test classici della relatività generale. Si tratta, per la precisione, della precessione del perielio dell’orbita di Mercurio, della deviazione della luce proveniente da stelle lontane a opera del Sole e del red-shift gravitazionale della luce. Inutile dire, senza tema di spoiler, che tutte e tre verifiche hanno brillantemente superato il vaglio sperimentale.

Precessione del perielio di Mercurio
Secondo la fisica newtoniana, ovvero la descrizione classica della gravità, un sistema a due corpi costituito da un corpo che orbita attorno a una massa di forma sferica descrive un’ellisse di cui la massa stessa occupa uno dei due fuochi. È il caso, per esempio, dei pianeti del Sistema solare. Tra cui, per l’appunto, il bollente Mercurio. Sempre Newton insegna che il perielio dell’orbita, ovvero il punto di massima vicinanza con il Sole, dovrebbe spostarsi nel tempo (la cosiddetta precessione) a causa delle interazioni gravitazionali con gli altri pianeti del Sistema solare. Tuttavia, l’analisi delle precessioni del perielio di Mercurio, effettuata da Urbain Le Verrier nel 1859, rivelò un disaccordo di 43 arcosecondi per anno solare rispetto alle previsioni. Inserendo nelle equazioni gli effetti dovuti alla curvatura dello spazio-tempo previsti dalla relatività generale, le osservazioni sperimentali tornano invece a essere in accordo con i risultati teorici. A dimostrarlo fu lo stesso Einstein nel 1916, un anno dopo l’annuncio delle sue equazioni di campo.

Deviazione della luce solare
È probabilmente la verifica della teoria della relatività generale più celebre e spettacolare di sempre. Stando alle intuizioni di Einstein, come ricordato sopra, lo spazio-tempo è deformato dalle masse che vi sono contenute: a tale deformazione sono soggetti anche i raggi di luce, che dunque si piegano quando passano in prossimità di oggetti celesti come stelle o pianeti massivi. L’eclissi totale di Sole del 1919 provò brillantemente questo meccanismo: l’astronomo Arthur Eddington, infatti, riuscì a osservare delle stelle che sarebbero dovute trovarsi dietro il Sole rispetto alla Terra (e dunque non visibili) proprio grazie al fatto che la loro luce veniva deviata dalla nostra stella. Si dice che il fisico tedesco, a chi gli chiese come avrebbe reagito se l’osservazione dell’eclissi avesse sconfessato la sua teoria, risposte: “Mi sarei dispiaciuto per il Signore. La relatività generale, comunque, è corretta”.

Red shift gravitazionale della luce
Si tratta di un fenomeno per cui la frequenza della radiazione elettromagnetica si sposta se l’osservatore si trova in una regione a potenziale gravitazionale maggiore rispetto alla sorgente della radiazione stessa. Per semplificare: il fenomeno è l’analogo elettromagnetico dello spostamento in frequenza delle onde sonore che sperimentiamo quando ci transita vicino un’ambulanza a sirene spiegate: la frequenza del suono della sirena cambia quando l’ambulanza si allontana da noi. Uno studio sperimentale del 1971 ha misurato accuratamente il red shift gravitazionale della luce emessa da Sirio B, risultato – tanto per cambiare – in accordo con le previsioni einsteiniane.

Alle tre verifiche classiche sono poi seguite, in tempi più recenti, altre osservazioni sperimentali che hanno ulteriormente consolidato la robustezza della relatività generale. È il caso, per esempio dell’osservazione della radiazione emessa dalla supernova Refsdal: il team di Patrick Kelly, della University of California, Berkeley, ha scoperto nel 2015 che la luce si divide in ben quattro percorsi diversi dando origine alla cosiddetta croce di Einstein. Responsabili sono dei cluster galattici estremamente massicci che, curvando lo spazio tempo, deviano la luce della supernova come se fossero enormi lenti di ingrandimento. E ancora: l’osservazione delle onde gravitazionali, impresa complicatissima dal punto di vista sperimentale e centrata, a febbraio 2016, dagli interferometri dell’esperimento aLigo di Hanford e Livingstone. Si tratta, ricordiamo, di una perturbazione dello spazio-tempo che si origina per effetto dell’accelerazione di due o più corpi dotati di massa (due buchi neri o due stelle in rotazione, per l’appunto) e che si propaga alla velocità della luce modificando a sua volta, localmente, la geometria dello spazio e del tempo. Alla prima storica osservazione, tra l’altro, ne sono seguite altre due. L’ultima, recentissima, si deve alla collisione di due buchi neri, che si sono fusi in unico corpo con massa pari a circa 49 volte quella del Sole e hanno emesso onde gravitazionali captate, ancora una volta, dagli acutissimi occhi di aLigo.

Arriviamo così, finalmente, all’attualità: gli autori dello studio appena pubblicato su Science, usando i dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble, dalla Nasa e dall’Agenzia spaziale, hanno (ancora una volta) studiato la deformazione dello spazio-tempo provocata dalla massa di una stella, analizzando la deviazione della luce di un’altra stella posta sullo sfondo. In questo modo, è stato possibile misurare la massa della stella responsabile della deformazione: “La ricerca”, commenta Kailash Sahu, primo autore dello studio, “fornisce un nuovo strumento per determinare la massa di oggetti cui non possiamo accedere in alcun altro modo. La nostra équipe ha misurato la massa di una nana bianca, un corpo celeste che ha esaurito la propria riserva di idrogeno e che costituisce una sorta di resto fossile della prima generazione di stelle della Via Lattea”.

Istituto Dante Alighieri