La più grande truffa di tutti i tempi - Bernie Madoff -

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“Your Honor, for many years up until my arrest on December 11, 2008, I operated a Ponzi scheme through  the  investment  advisory  side  of  my  business,  Bernard  L.  Madoff  Securities  LLC,  which was located here in Manhattan, New York at 885 Third Avenue.”  Queste  sono  le  parole  di  esordio  di  fronte  al  giudice,  di  Bernard  Madoff,  l’uomo  che  ha  cavalcato una delle più grandi truffe di tutti i tempi. Nell’esordio si intravede il possibile percorso difensivo, fondato sull’incolpare una parte del business (il lato advisory), sostenendo che gli altri rami (ad es. il  brokeraggio)  erano  perfettamente  legali  e  rispettabili.  Non  siamo  interessati  in  questa  sede  a valutare  se  questa  sia  la  strada  difensiva  migliore,  benchè  il  tema  della  “exit  strategy”  sia interessante,  bensì  a  capire  da  dove  origina  e  come  si  è  svolta,  anche  dal  punto  di  vista  tecnico, questa colossale truffa, che pare aver coinvolto e bruciato 65 miliardi di dollari.

DAL BROKERAGGIO ALL’ADVISORY La  società  di  Madoff  (BMIS)  nasce  come  un  puro  business  di  brokeraggio,  sia  sui  mercati regolamentati,   che   su   quelli   over   the   counter   (OTC).   Il   termine   over   the   counter,   deriva probabilmente la sua etimologia, dall’espressione usata dalle farmacie per i prodotti da banco, per i quali  non  è  necessaria  la  prescrizione  del  medico  ed  i  prezzi  non  sono  controllati.  In  campo finanziario si tratta di mercati la cui negoziazione si svolge al di fuori dei circuiti borsistici ufficiali, quindi con contratti non standardizzati, regole definite dagli operatori e minori controlli. Vi operano, in genere, intermediari istituzionali e grandi player. Madoff diventa uno dei principali broker, perseguendo una doppia strategia: - realizza  rilevanti  investimenti  per  dotarsi  di  tecnologia  che  gli  consenta  di  fare  trading  in modo più veloce, meno costoso ed egualmente affidabile, rispetto ai competitor; - avvia una discussa pratica di pay-back, consistente nel rimborsare un certo valore per azione, a tutti quei broker che decidono di spostare su di lui parte della loro operatività. I  suoi  volumi  diventano  talmente  rilevanti,  che  entra  a  far  parte  del  gruppo  di  aziende  scelte  per sviluppare il Nasdaq, fino ad arrivare ad averne in seno, incarichi ufficiali. La storia sarebbe potuta terminare qui, ma il successo ed i margini, attirano altri operatori, tanto che il  brokeraggio  perde  nel  tempo  buona  parte  della  sua  profittabilità,  dal  momento  che  i  broker combattono usando proprio la leva prezzo.  Madoff  aggiunge  alle  sue  attività  quella  di  market  maker.  Il  market  maker  è  un  operatore  che  si assume  il  rischio  di  detenere  un  certo  numero  di  azioni  di  un  particolare  titolo  per  facilitarne  gli scambi sul mercato. Il brokeraggio di Madoff si evolve, perché assumersi un rischio significa essere remunerati maggiormente per sostenerlo. Il market maker è presente sul mercato con determinati quantitativi a specifici prezzi, in acquisto ed in  vendita;  quando  riceve  un  ordine,  immediatamente  lo  esegue  al  prezzo  che  egli  stesso  offre  o cerca  un  compratore  /  venditore  per  il  prezzo  richiesto  dal  cliente  e  grazie  alla  tecnologia,  il processo avviene in pochissimi secondi o frazioni di secondo.  Nel 1989 la BMIS gestisce più del 5% dei volumi transati alla borsa di New York (NYSE). Anche in  questo  caso  la  storia  si  sarebbe  potuta  concludere  con  un  caso  di  successo,  ma  nuovamente  la concorrenza abbassa i margini ed i profitti. Oggi al Nasdaq, per esempio, operano circa 500 market makers, non vi è dubbio che la fetta a disposizione di ciascun operatore rischia di diventare sempre più sottile. Da  qui  alla  consulenza  /  advisory,  i  cui  margini  sono  maggiori,  il  passo  è  breve.  BMIS  però  non consiglia  solo  dove  investire,  bensì  canalizza  gli  investimenti  in  alcune  direzioni;  la  consulenza porta ad un chiaro conflitto di interesse. IL TRIPLO RUOLO Si  è  letto  in  alcuni  articoli  che  Madoff  gestisse  uno  o  più  hedge  fund  (fondi  speculativi). L’affermazione  non  è  corretta.  Madoff  non  è  mai  stato  ufficialmente  un  gestore  di  fondi,  anche  se ha sempre dichiarato di poter fornire ai suoi investitori un rendimento costante del 10-12% annuo.  

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All’inizio del 2008, BMIS gestiva 23 posizioni per 17 miliardi di dollari. La maggior parte di questi conti  apparteneva  a  cd  “feeder  fund”  (fondi  finanziatori  o  di  alimentazione)  che  offrivano  quote  a numerosi  investitori  in  giro  per  il  mondo  oppure  venivano  usati  come  sottostante  di  prodotti strutturati,  investimenti  speculativi  etc...  Questo  significa  che  gli  investitori  non  erano  clienti  di BMIS, bensì dei fondi. I ritorni erano quindi, in prima battuta, dei fondi, i quali dovevano aprire un conto presso BMIS e delegare la gestione dei loro portafogli. Emerge  chiaramente  che  Madoff  operasse  quindi  come  broker  /  market  maker  e  anche  gestore  di fondi,  anche  se  dietro  le  quinte  di  un  semplice  ruolo  di  advisor.  Ruolo  che  Madoff  riuscì  a  non dichiarare  alla  SEC  americana  (l’equivalente  della  Consob)  fino  al  2006,  dal  momento  che  potè sfruttare  una  norma  secondo  la  quale  gli  advisor  con  meno  di  quindici  clienti  erano  dispensati  dal segnalare  la  propria  posizione.  I  clienti  di  BMIS  erano  pochi  feeder  funds,  che  però  gestivano  (o meglio, facevano gestire a Madoff) investimenti per migliaia di clienti finali. Se di primo acchito, appare evidente il conflitto di interessi tra il ruolo di intermediario e quello di gestore  (sapendo  dove  si  muovono  ingenti  masse  di  denaro,  il  rischio  di  insider  trading  è elevatissimo),  bisogna  però  pensare  a  come  sono  regolamentati  i  mercati  da  una  parte  e  dall’altra dell’oceano:  i  fondi  europei  destinati  al  pubblico  (i  cosiddetti  UCITS  III,  Undertakings  for Collective  Investment  in  Transferable  Securities)  hanno  regole  molto  restrittive  riguardo  a  tali conflitti di interesse, quali americani no. In  particolare,  la  BMIS  aveva  anche  un  terzo  ruolo,  quello  di  custode  degli  asset  dei  fondi investitori, aspetto che sotto la normativa europea non sarebbe stato mai permesso. Madoff quindi gestiva le attività dei fondi finanziatori (gestore) decidendo dove investire e quando, piazzando gli ordini per loro conto sul mercato ogni giorno (broker) e tenendo in custodia i titoli dei fondi  stessi  (deposito).  Nella  maggior  parte  dei  casi  queste  figure  sono  distinte,  oppure,  qualora alcune  “dipendenze”  siano  giustificate  da  strategie  particolarmente  complesse  o  da  investimenti meno  liquidi,  il  potenziale  conflitto  di  interessi  viene  mitigato  utilizzando  controllori  esterni indipendenti appositamente nominati e procedure certificate. I FEEDER FUNDS E LE STRANE COMMISSIONI Il  ruolo  dei  feeder  funds  è  già  stato  in  parte  evidenziato.  “Giravano”  business  a  Madoff  e incassavano  i  rendimenti.  La  simbiosi  tra  le  due  parti  è  talmente  evidente  che  l’andamento  dei principali feeder funds è stato usato, una volta emersa la crisi, come proxy per stimare l’evoluzione dei  risultati  “ottenuti”  dalla  BMIS.  In  particolare,  osservando  Fairfield  Sentry  Ltd  (FFS),  Kingate Global Fund Ltd (KING), Optimal Strategic US Equity Ltd (OPTI), Santa Clara I Fund (SANTA), LuxAlpha Sicav - American Selection (LUX) e Herald Fund SPC - USA Segregated Portfolio One (HRLD), si nota come su 156 mesi di osservazione (precedenti al Dicembre 2008) solo in 5 casi la performance  mensile  sia  stata  negativa.  Risultati  clamorosi,  fuori  norma  e  irreplicati  da  qualsiasi altro operatore, fatto che già di per se rappresenta un alert. La situazione diviene ancora più anomala se si considera che la BMIS dichiarava di generare ricavi solo  a  fronte  delle  commissioni  di  brokeraggio  che  i  fondi  le  pagavano  per  operare  sui  mercati. Madoff  sosteneva  di  voler  far  beneficiare  i  suoi  clienti,  in  primis  quindi  i  feeder  funds,  del  suo elevato  expertise  nel  selezionare  gli investimenti.  Quindi  i  ritorni  dei  fondi  erano  davvero  “pieni”, in  quanto  non  pagavano  a  Madoff  alcuna  commissione  di  gestione  o  di  performance,  come avrebbero dovuto fare con qualsiasi altro gestore. Del resto la BMIS formalmente non gestiva alcun fondo, al massimo era un advisor e ufficialmente neanche quello. Rendimenti  costanti,  più  alti  della  media  ed  a  buon  prezzo.  In  realtà  queste  “red  flag”,  che dovrebbero appartenere alla sfera del buon senso, specialmente per un investitore qualificato, erano associate  ad  altri  indicatori  più  specifici:  per  esempio  lo  sharpe  ratio.  Tale  indicatore  esprime  il rendimento  di  un  portafoglio,  in  termini  percentuali  per  ogni  “unità  di  rischio”  dell’investimento (misurato  con  la  volatilità).  Se  anche  qualcuno  avesse  creduto  alla  capacità  quasi  taumaturgica  di Madoff  di  generare  rendimenti  eccellenti,  credere  che  questo  possa  avvenire  con  un  livello  di rischio basso rasenta la stupidità. O l’avidità.

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COSA MADOFF DICEVA DI FARE: LA STRATEGIA SPLIT-STRIKE A  livello  di  feeder  fund,  il  materiale  di  marketing  ed  i  regolamenti  di  sottoscrizione  a  volte  non menzionavano  nemmeno  la  BMIS  di  Madoff.  Semplicemente  dichiaravano  di  allocare  asset  ad  un manager che usava una strategia split-strike e questa segretezza, anomala in un mercato competitivo, era  concordata  con  Madoff  stesso.  Anche  questo  era  un  piccolo  alert:  se  lavorare  con  Madoff  era così  vincente,  perché  nasconderlo?  In  realtà  Madoff  selezionava  fortemente  coloro  che  potevano investire  con  lui:  non  bastava  avere  molto  denaro  ed  essere  “arrivati”  dal  punto  di  vista  sociale, bisognava far parte di un club ristretto, scelto da Madoff stesso, per investire con o tramite lui. Un  ulteriore  elemento  di  scetticismo  avrebbe  potuto  derivare  dal  mettere  alla  prova  la  strategia  di Madoff: banalmente, non sarebbe stata in grado di per se di produrre i rendimenti dichiarati.  Il sistema era relativamente semplice, una combinazione di azioni e opzioni: - acquisto di un portafoglio di azioni altamente correlate con l’indice S&P 100; azioni con un beta piuttosto alto; - vendita di un’opzione call out-of-the-money (cioè con prezzo d’esercizio superiore al prezzo di mercato del titolo sottostante l'opzione) sull’indice S&P 100 stesso; - acquisto di opzioni put out-of-the-money sempre sull’indice S&P 100; questo crea un limite inferiore sotto il quale ulteriori diminuzioni del valore del portafoglio vengono compensate dai guadagni generati dall’opzione. Lo  scopo  di  un  “collar”  in  genere  è  quello  di  garantire  una  protezione  verso  possibili  ribassi  del portafoglio,  ad  un  costo  inferiore  rispetto  alla  strategia  di  acquisto  delle  sole  opzioni  put,  dal momento che il costo di acquisto delle put è mitigato dai guadagni derivanti dalla vendita delle call. Madoff  sosteneva  che  tale  strategia  avesse  dei  pregi:  in  sintesi  un  ottimo  sharpe  ratio  ed  in  più  la convenienza  di  acquistare  le  opzioni  sull’indice,  invece  che  sulle  singole  azioni  del  portafoglio. Tutto  sommato  motivazioni  semplicistiche,  tenuto  conto  che  positivi  rendimenti  delle  azioni implicano anche maggiori costi delle opzioni put e che, anche a fronte di una fenomenale capacità di scegliere le azioni in portafoglio, il rischio di correlazione può vanificare l’intera strategia. Infatti nessun altro utilizzatore di tale metodo è mai riuscito ad ottenere rendimenti del 12%...A  corollario  di  tale  strategia  vi  è  il  comportamento  tipico  di  Madoff,  di  operare  a  brevissimo termine, cioè a fine mese chiudeva tutte le posizioni e mostrava un portafoglio di soli titoli di stato (americani).  Perché?  Perché  da  qualsiasi  rendiconto  sarebbe  apparsa  una  posizione  finale  del  tutto normale;  mentre  su  tutte  le  transazioni  intermedie  Madoff  era  alquanto  evasivo.  Gli  investitori,  in un  mondo  caratterizzato  da  un  uso  crescente  della  tecnologia  informatica  e,  più  semplicemente dell’email,  erano  abituati  a  ricevere  per  posta  ordinaria  resoconti  che  riportavano  la  posizione  di partenza  e  quella  finale,  senza  dettaglio  delle  transazioni  e  dei  flussi  che  avevano  portato  a  tale risultato. Indubbiamente bizzarro. A  volte  il  portafoglio  finale  era  direttamente  investito  in  liquidità  e  la  scusa  era  non  mostrare  a nessuno   (specialmente   gli   organi   di   viglianza)   ove   cadevano   le   scelte   di   investimento. Argomentazioni legate alla privacy ed alla segretezza mascheravano ben altro. Insomma,   anche   se   Madoff   fosse   stato   bravissimo   a   scegliere   le   azioni   ed   il   timing dell’investimento, i segnali controversi sarebbero stati parecchi. COSA MADOFF FACEVA: LO SCHEMA PONZI Il  sistema  di  Madoff  era  uno  schema  Ponzi.  I  rendimenti  promessi  agli investitori  venivano  pagati con  la  raccolta  dei  nuovi  entranti.  Una  struttura  piramidale  che  ha  iniziato  a  crollare  quando  gli investitori,  di  fronte  ai  mercati  in  preda  ad  una  crisi  di  liquidità  e  fiducia,  hanno  cominciato  a chiedere il rimborso non solo gli interessi, ma anche il capitale investito. La situazione si presta ad essere  descritta  con  un  noto  aforisma  di  Warren  Buffet:  “it's  only  when  the  tide  goes  out  that  you see who has been swimming naked”. La  struttura  piramidale  dello  schema  Ponzi,  ben  inteso,  non  ha  sempre  intenti  truffaldini.  Basti pensare  alle  nuove  emissioni  di  titoli  di  stato,  che  un  Paese  usa  per  ripagare  interessi  e  debito  in

scadenza, oltre che per finanziare il nuovo fabbisogno; lo strumento contribuisce ad evitare shock di breve periodo e si regge sul “quasi-inesistente” rischio di default di un Paese ricco. Per alcuni versi, anche  il  programma  di  assistenza  medica  agli  ultrasessantacinquenni  americano  (Medicare)  è  uno schema Ponzi.  Gli esempi fraudolenti sono numerosi: dai fondi di investimento, alle operazioni a premio, al settore immobiliare,  fino  al  caso  Home  Stake,  società che  si  occupava  di  perforazioni  di  pozzi  petroliferi, ovviamente  inesistenti:  per  ingannare  i  compratori  dei  titoli  della  società,  i  truffatori  arrivarono  a dipingere  di  arancione  i  tubi  per  l'irrigazione  di  una  fattoria  in  California,  per  farla  sembrare  un giacimento  di  petrolio. 

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Quando  la  compagnia  andò  in  bancarotta,  gli  ignari  azionisti  persero  cento milioni di dollari. Chi  era  Carlo  Ponzi?  Un  bancarottiere  italiano  nato  a  Parma  nel  1882  ed  emigrato  in  Canada  nel 1903  dove  iniziò  la  sua  “carriera”  falsificando  banconote.  Appena  scarcerato  si  spostò  negli  USA dove  si  occupò  di  contrabbando.  Nel  1919  a  Boston  (ancora  oggi  viene  chiamato  il  “maestro  di Boston”)  organizzò  un  colossale  schema  piramidale  applicandolo  ai  francobolli  internazionali prepagati:  i  "tagliandi  internazionali  di  risposta",  creati  nel  1906  dai  Paesi  aderenti  all'Unione Postale Universale, venivano acquistati dal mittente di una lettera, in genere gli emigrati negli Stati Uniti, che così pagavano in anticipo il francobollo per la risposta. A quell'epoca il costo della vita in Europa  era  molto  basso  e  il  prezzo  d'acquisto  di  un  francobollo  equivaleva  a  un  centesimo  di dollaro,  ma  le  Poste  americane  restituivano  francobolli  locali  per  un  controvalore  di sei  centesimi. Ponzi  lasciò  intravvedere  ai  suoi  investitori  una  possibilità  di  facile  arbitraggio,  quantificata  in restituzione dell’investimento in 90 giorni più interessi del 45%, che coinvolse oltre 10.000 cittadini. Pagò  i  primi  investitori  (un  buon  specchietto  per  le  allodole),  raccolse  9,5  milioni  di  dollari dell’epoca (una cifra che attualizzata equivale a 160 milioni di dollari odierni) e si permise anche di acquistare quote di una banca locale (la Hanover Trust Company). Dopo circa 6 mesi, la piramide iniziò   a   crollare,   tanto   che   Ponzi   cercò   di   sostenerla   distraendo   fondi   dalla   banca   appena “acquistata”,  resistendo  fino  all’estate  del  1920.  Le  richieste  di  uscita  erano  ormai  insostenibili, comparate con i nuovi ingressi. Per lui si riaprirono le porte del carcere. Ironia  della  sorte,  se  avesse  “brevettato”  a  suo  nome  questo  schema,  i  suoi  avi  godrebbero  ancora oggi di consistenti royalties. La storia è sicuramente “gustosa”, il problema è che quello che fu possibile nel 1920, con limitata tecnologia, informazione e controllo, si è ripetuto su dimensioni globali meno di un secolo dopo. Da 6  mesi  a  quasi  20  anni  di  durata,  da  6  milioni  di  dollari  persi  (sugli  oltre  9  raccolti)  a  65  miliardi bruciati (sui 17 gestiti). COME SI ARRIVA DAI 17 MILIARDI GESTITI AI 65 PERSI? Vi si arriva per molte strade: 1)   hanno  realizzato  imponenti  perdite  i  feeder  fund  di  diritto  americano,  europeo  o  basati  in paradisi fiscali (ad es. Cayman e Bermuda): tra gli altri Fairfield Greenwich Group ed il suo Fairfield  Sentry  fund  ($  7.5  miliardi);  Tremont  Capital  Management  ($  3.1  miliardi); Kingate Management ed il suo Kingate Global Fund ($ 2.8 miliardi); Ascot Partners ($ 1.8 miliardi);  e  Access  International  Advisors  ($  1.5  miliardi  in  LuxAlpha);  questi  operatori avevano una vasta clientela, colpita dal tracollo di Madoff; 2)   hanno  sopportato  perdite  le  grandi  banche  che  gestivano  fondi  di  fondi  (funds  of  hedge funds):  per  es.  Santander  Optimal  (2.33  miliardi  di  euro),  Union  Bancaire  Privée  (796 milioni di euro) e le tante altre citate dai vari articoli dei quotidiani; tali istituiti si ritenevano forti di una solida reputazione generale e di un’elevata qualità delle proprie due diligence; 3)   hanno  perso  le  banche  depositarie:  per  anni  alcuni  istituti  europei  hanno  agito  da  banca depositaria,  e  cioè  custode  dei  cespiti  di  alcuni  dei  feeder  funds  che  alimentavano  il gigantesco  schema  Ponzi.  E  poiché  quei  cespiti  sono  apparentemente  svaniti  nel  nulla,  le banche  potrebbero  adesso  ricevere  costosissime  richieste  di  risarcimento  da  chi  aveva investito nei fondi. Per Ubs l'esposizione potrebbe essere di 1,4 miliardi di euro. Per Hsbc di almeno  1,6  miliardi  di  euro,  che  però  si  andrebbero  ad  aggiungere  al  miliardo  di  dollari  di potenziale perdita già dichiarata. 4)   hanno perso le banche che hanno partecipato agli investimenti a leva: l’investitore mette un dollaro in un primo fondo, questo effettua una certa operazione con una banca controparte, che investe altri due dollari in un fondo gestito da Madoff. L’investitore può beneficiare di guadagni  moltiplicati  per  tre,  ma  in  caso  negativo  il  sistema  moltiplica  anche  le  perdite;  il crollo di Madoff infatti fa perdere un dollaro all’investitore e due alla banca. In un esempio chi  investe  mette  i  suoi  soldi  in  un  primo  fondo  (il  Wickford  Fund)  proposto  dalla  società californiana  Prospect  Capital  Llc.  Questo  fondo  effettua  uno  swap  con  Hsbc  (a  volte  la banca  controparte  non  è  nemmeno  menzionata)  e  quest'ultima  mette  3,25  volte  tanto  nel fondo Fairfield gestito da Madoff. Morale: investi uno, perdi 3,25. DOV’ERANO VIGILANZA E CONTROLLI? Negli  ultimi  sedici  anni  la  SEC  ha  ispezionato  per  otto  volte  le  attività  di  Madoff  senza  riuscire  a risalire ad infrazioni rilevanti, se non pochi aspetti formali e secondari. Risale al 2005 un memo di un  investigatore  indipendente  (Harry  Markopolos)  esperto  di  frodi  e  derivati,  inviato  alla  SEC  e profeticamente intitolato “The world’s largest hedge fund is a fraud”. Il paper di circa 20 pagine più appendici,  cita  29  “red  flag”  che  portavano  l’autore  a  parlare  di  uno  schema  Ponzi,  alcuni  anni prima dello scoppio della crisi. Quello che gli esperti di finanza vogliono approfondire sugli strani sharpe  ratio,  sull’impossibilità  della  strategia  split-strike  di  generare  certi  rendimenti,    sulle performance  troppo  costanti  dei  feeder,  sui  bizzarri  schemi  commissionali,  sulla  presunta  market-time ability di Madoff, sulla mancanza di audit etc... era già tutto scritto con largo anticipo. La  SEC  nonostante  le  esche  che  le  sono  state  sventolate  letteralmente  sotto  il  naso,  non  era  certo l’unico  organismo  di  vigilanza. 

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Chiaramente  la  BMIS  aveva  una  società  di  auditing:  la  piccola  e semisconosciuta  Friehling  and  Horowitz.  Benchè  fosse  accreditata  presso  la  SEC  era  virtualmente sconosciuta nel settore, dotata di un piccolo ufficio in periferia ed il suo staff consisteva in Jerome Horowitz  (un  partner  sulla  settantina,  residente  a  Miami),  una  segretaria,  ed  un  contabile  (David Friehling).  Poteva  una  struttura  del  genere  fare  revisione  ad  un  colosso  che  gestiva  fondi  tanto importanti? In realtà non bisogna dimenticare che la BMIS ufficialmente era un “semplice” broker e dichiarava (dopo esserne stata costretta nel 2006) che il lato advisory del suo business era seguito da cinque  persone  al  massimo.  Non  vi  è  dubbio  che  la  struttura  societaria  e  manageriale  della  BMIS avrebbe  dovuto  sollevare  parecchi  dubbi,  perché  incentrata  su  membri  della  famiglia  Madoff  e pochi gestori specializzati, appena 5 per seguire 17 miliardi di dollari. Di  fatto  il  cuore  dell’auditing  avveniva  a  livello  di  feeder  funds,  quindi  un  passo  più  lontano  da Madoff. Qui  si  apre  forse  il  tema  più  doloroso:  ma  se  anche  i  sistemi  di  controllo  “pubblici”  non  hanno saputo  captare  le  anomalie  della  BMIS,  se  anche  i  ricchi  investitori  privati,  le  fondazioni  e  le associazioni  non  hanno  capito  il  trucco  che  si  celava  dietro  il  business  model  della  BMIS,  come hanno potuto farsi abbindolare i grandi operatori specializzati (banche, intermediari, gestori di fondi e di fondi di fondi)? Ognuno  di  loro  avrebbe  dovuto  praticare  un’approfondita  due  diligence,  che  è  lo  strumento normalmente usato per valutare in termini quantitativi e qualitativi la bontà di un operatore al quale affidare i propri investimenti. E’ evidente che nonostante le dichiarazioni di facciata, i feeder fund complici   non   svolgevano   alcuna   due   diligence   verso   l’operato   di   Madoff,   in   parte   perché “semplice” broker, in parte perché dotato di una reputazione inattaccabile. Per  coloro  che  invece  hanno  condotto  una  due  diligence,  alcuni  non  hanno  investito,  altri  si.  Non dimentichiamo  che  la  due  diligence  è  una  best  practice  e  benchè  siano  aumentati  gli  sforzi  per standardizzarne  il  processo  con  pratiche  universalmente  accettate,  resta  comunque  uno  sforzo “privato”  che  non  ha  uno  specifico  valore  legale.  Quindi  può  essere  fatta  male  o  manipolata. 

Lo possiamo dire senza imbarazzi, perché diversi studi sulla parte quantitativa emergente dalle analisi delle  performance  dei  feeder  funds  e  da  altri  dati  pubblici,  stanno  ampiamente  dimostrando  come l’anomalia BMIS potesse essere identificata in anticipo. Il  tema  della  due  diligence  e  dell’analisi  del  rischio  in  generale  non  può  e  non  deve  essere sottovalutato,  dal  momento  che  ha impatti  su  molte  aree  della  vita  “finanziaria”  di  un  Paese,  delle banche e dei vari operatori. Il problema Madoff, infatti, si estende fino a influenzare Basilea II: le attività di una banca sono infatti suddivise in categorie, ad ognuna delle quali è associato un fattore di rischio (beta, tanto per cambiare) e tanto maggiore è la quota di impieghi dedicata a tali attività e tanto maggiori sono le protezioni (in termini di patrimonio disponibile) che la banca deve prendere. Le  attività  di  Asset  Management  sono  quelle  a  beta  più  basso  (12%),  mentre  per  esempio  è associato  un  18%  a  Corporate  Finance  e  Payment  &  Settlement,  oppure  un  15%  a  Commercial Banking e Agency Services e così via. Dopo Madoff ci si sta chiedendo se tale 12% includesse già la possibilità di un evento come quello cui siamo di fronte, oppure no e quindi sia da rivedere. CONCLUSIONI Questo  paper  vuole  posizionarsi  tra  gli  articoli  dai  toni  scandalistici  scritti  sulla  bancarotta  di Madoff  ed  i  paper  tecnici  che  analizzano  strategie  e  strumenti  utilizzati  per  condurre  la  truffa. Questa è una revisione che prescinde da qualsiasi considerazione e giudizio sull’operato delle parti coinvolte,  su  come  hanno  operato  e  su  come  si  sarebbe  potuto  meglio  controllare  le  azioni  degli aventi  causa.  Questo  per  un  semplice  motivo.  Anche  se  il  caso  Madoff  fornirà  molti  spunti  per migliorare  il  mondo  finanziario  esistente,  non  fornirà  alcun  deterrente  all’avidità  umana  ed  ai comportamenti  irrazionali,  che  stanno  alla  base  del  comportamento  di  molte  delle  parti  coinvolte. Sicuramente in questo momento da qualche parte del mondo, qualcuno starà valutando di investire le  proprie  risorse  in  operatori  che  promettono  rendimenti  superiori  alla  media  in  modo  anomalo, qualcun altro starà operando uno schema Ponzi e qualcuno si starà arricchendo muovendo denaro. Sono abbastanza convinto che sia necessario riportare l’enfasi sulle aziende reali, sui servizi, sulla produzione, sull’economia “concreta”, con la finanza impegnata ad architettare le migliori strategie di  supporto  e  non  ad  inventare  percorsi  di  automoltiplicazione  delle  attività  e  dei  rischi.  Il  caso Madoff, nella peggiore delle ipotesi, aiuterà in tal senso.

Istituto Dante Alighieri