È giusto bannare Donald Trump dai social? – Wired Next pone il quesito – 8 gennaio 2021
Le misure prese da Facebook e Twitter non sono censura, ma la tardiva e insufficiente reazione contro un uomo che ha infranto ogni regola possibile e immaginabile
“Crediamo che continuare a consentire al presidente di usare il nostro servizio in questo periodo sia semplicemente troppo pericoloso”, ha scritto Mark Zuckerberg annunciando – in seguito al farsesco tentato golpe negli Usa – di aver sospeso l’account Facebook di Donald Trump almeno fino all’inaugurazione dell’amministrazione Biden. Una frase a sua modo storica, che dimostra lo straordinario potere politico delle piattaforme e che illustra anche come siano cambiate le cose – come sia cambiato l’approccio dei social network – nel corso di pochi mesi.
Ancora a giugno, Mark Zuckerberg affermava che “Facebook non può essere l’arbitro della verità”, mentre dal canto suo Jack Dorsey di Twitter – che oggi l’ha temporaneamente sospeso – continuava a permettere a Donald Trump di violare ripetutamente i suoi termini di servizio con incitazioni alla violenza, post razzisti e altro ancora, cucendogli su misura una “eccezione speciale” legata al fatto di essere il presidente degli Stati Uniti. I social network hanno trattato Trump con i guanti di velluto, permettendogli di dire tutto quello che voleva e anche di organizzare in serenità gli eventi del 6 gennaio, incitando per giorni alla rivolta davanti agli occhi di tutti.
I risultati di questa politica del laissez faire li abbiamo visti ed è inutile commentarli ulteriormente. Ma questo significa che quanto avvenuto è colpa dei social network? Ancora una volta, rischia di aprirsi il dibattito che tiene banco almeno dal 2016: è colpa di Facebook se ha vinto Donald Trump? Se in Europa l’estrema destra e il populismo viaggiano a gonfie vele? Se le teorie del complotto vanno sempre più forte?
La verità è che, oggi, non è questo il punto. Il punto è che i social network sono una parte fondamentale del mondo reale ed è inevitabilmente sui social che, di conseguenza, avviene la diffusione di estremismo di destra, populismo e teorie del complotto (senza voler negare che il meccanismo dei social faciliti la diffusione di determinate teorie). È quindi su queste piattaforme che – se si vuole agire – vanno prese le eventuali contromisure. L’assenza di contromisure è ciò che ha consentito la diffusione tra milioni di persone di una teoria del complotto come QAnon, secondo cui il mondo è nelle mani di un’élite pedofila liberal e Donald Trump è l’unica diga contro questa deriva oscura.
Quando questo mix tra complottismo ed estremismo si trasferisce dai social al mondo reale il risultato può essere tragico: “È questa la lezione del Pizzagate del 2016, che ha reso evidente come le teorie del complotto diffuse su un forum possono portare un uomo a fare ingresso armato di fucile in un ristorante”, si legge sull’Atlantic. “È la lezione della manifestazione di Charlottesville del 2017, che ha reso evidente come l’odio online sia precursore della violenza offline. È la lezione della sparatoria nella moschea di Christchurch del 2019, eseguita da un terrorista radicalizzato su YouTube”. A questo va aggiunto il ruolo cruciale giocato proprio da QAnon negli avvenimenti delle ultime settimane.
Forse non sono i social ad aver creato tutto ciò, ma sono i social ad aver permesso – a causa del loro mancato intervento – che discorsi estremi, assurdi e pericolosi si diffondessero. Per lunghissimo tempo, tutte le piattaforme si sono lavate le mani di ciò che avveniva al loro interno, affermando di non essere realtà editoriali e di non poter decidere che cosa può o non può circolare.
E in parte è una posizione comprensibile: ha davvero senso che Mark Zuckerberg diventi l’arbitro della verità e decida chi ha diritto di rivolgersi a miliardi di altre persone e chi invece deve restare nell’ombra? Può essere una società privata a esercitare il potere di censura? E se un domani, per assurdo, Facebook venisse acquistato da un miliardario sostenitore sfegatato di Donald Trump? Abbandonare Facebook non è semplice quanto abbandonare un quotidiano passato a diversa proprietà. Sono le legittime preoccupazioni sottolineate proprio da chi, oggi, critica la decisione dei social network di sospendere gli account del presidente: “Non possiamo desiderare che delle piattaforme (…) incredibilmente potenti decidano chi ha diritto di parola in una democrazia”, ha per esempio spiegato al New York Times l’ex responsabile della sicurezza di Facebook Alex Stamos.
Osservazioni condivisibili. Vale però la pena di segnalare che, in contesti diversi, tutto questo già succede. È corretto chiamare censura la decisione dei grandi network americani di togliere la parola a Donald Trump quando, dopo la sconfitta, stava per ripetere dalla Casa Bianca le sue assurdità sui brogli? No, si è trattato di una scelta editoriale, con la quale si può non essere d’accordo ma che è legittima e nel pieno diritto di una testata giornalistica.
Lo stesso può avvenire anche con le piattaforme. Con una differenza cruciale: nel loro caso non si può parlare di linea editoriale, perché il giornalismo non c’entra. Ci sono però dei termini di servizio, delle condizioni d’uso e delle regole che chiunque utilizzi queste piattaforme deve accettare. E che, di base, prevedono che su Facebook, Twitter e gli altri non si possa incitare alla violenza, non si possano fare esternazioni razziste, misogine, antisemite o in generale discriminatorie, non si possano pubblicare contenuti pedopornografici. È censura, questa, o sono semplicemente le regole stilate da una piattaforma privata che decide, legittimamente, dove tracciare la linea rossa tra ciò che si può e non si può fare al suo interno?
Il problema, quindi, non è che Trump è stato infine censurato. Semmai il problema è che fino a oggi gli è stato permesso di violare queste regole in continuazione, con post razzisti, che incitano alla violenza o altro ancora. Gli è stato permesso, come già detto, con la motivazione che le parole del presidente degli Stati Uniti rappresentano un’informazione importante. Il problema è che questa “informazione” – non essendo mediata e contestualizzata da nessuno – rappresenta in verità un semplice post violento o razzista, indipendentemente dal suo autore. È inoltre inutile svelare il segreto di Pulcinella: a Trump tutto ciò non è stato consentito in nome della “notiziabilità”, ma perché per i social network – e per Twitter in particolare – Trump è stato una gallina dalle uova d’oro.
Come ha scritto la fondatrice di Valigia Blu Arianna Ciccone, “se fiorellino86 con i suoi 50 follower incita all’odio, alla violenza e al terrorismo viene bloccata in modo temporaneo e poi se insiste in modo permanente. Mi dovete spiegare ‘sto piagnisteo se questa stessa regola viene applicata all’uomo più potente del mondo”. La questione va ribaltata: non è che siccome si tratta dell’uomo più potente del mondo gli dev’essere consentito tutto. Proprio perché è l’uomo più potente del mondo bisogna porre massima attenzione, perché le conseguenze possono essere gigantesche.
L’enorme potere decisionale nelle mani di Facebook e Twitter è senz’altro una questione dei nostri tempi. In attesa che si inizi ad affrontare questo aspetto, e vista la situazione d’emergenza, possiamo anche arrischiarci a semplificare: se a Trump fosse stato impedito di promuovere su tutti i social una manifestazione che, come da tempo andava ripetendo, sarebbe stata “selvaggia” e durante la quale “avrebbero lottato” forse non avremmo assistito alle scene assurde del 6 gennaio.
Sarebbe stato meglio o peggio?